lunedì 15 luglio 2013

Intervista a Enzo Paolo Gavazzoni, pittore in Torino

Le Interviste di DASTRA
Enzo Paolo Gavazzoni, pittore in Torino
14 giugno 2013


Enzo Paolo Gavazzoni nasce a Cuorgnè (TO) il 6 settembre del 1952.
Ha frequentato tra il 1966 e il 1970 il Liceo Artistico Accademia Albertina e, in quella stessa sede, l'Accademia di Belle Arti. Tra i suoi insegnanti ricordiamo Piero Ruggeri, Saroni, Chessa, De Valle, Soffiantino. 
Enzo Paolo Gavazzoni vive ed opera in Torino.

L'intervista

D. Qual'è il motivo essenziale che ti ha condotto ad esprimerti attraverso la pittura?

R. Forse il motivo principale corrisponde alla svolta finale della mia ricerca interiore, che parte probabilmente dopo i diplomi al Liceo Artistico Accademia Albertina e alle Belle Arti dello stesso istituto a Torino.
Terminati gli studi, avevo subito intrapreso la professione di arredatore, ma quattro anni fa (2009) la solida formazione, ricevuta e mai dimenticata, mi ha spinto a interessarmi di nuovo di arte. A sessant’anni ho deciso di approfondire le mie passioni giovanili e da quel momento a ripreso a formarsi il desiderio di dipingere.

D. Come nasce la tua opera pittorica?

R. Al secondo anno di liceo artistico nasce in me la passione per il Caravaggio. Il mio professore di disegno figurativo era allora Piero Ruggeri, siamo nel ’68 e Ruggeri era uno degli artisti più importanti in Europa, nonché studioso dell’artista lombardo, in tutto questo c’era qualcosa di simile ad una predestinazione.

D. A proposito di ispirazione, in quanto a stile e ideazione come prendono forma i soggetti delle tue opere?

R. Nessun soggetto, molte percezioni, oniriche, trascendenti, la mia percezione religiosa della vita come senso dello spirito e non della dottrina catechistica. Nella mia pittura nessuna forma, molto mistero.

D. Vai per tentativi, hai un'idea di partenza o l’opera, una volta completata è una sorpresa anche per te?

R. Mi affido ad ambedue le opportunità. L’idea mentale è per me inevitabile, essendo la mia pittura la sua emanazione. Per realizzare ciò mi avvalgo di modelli che rendano visibile questa difficile impresa. Sono gli umori e i colori di certa pittura sacra del Tintoretto e del Caravaggio, da cui tolgo le figure sostituendole con un linguaggio segnico, fatto di sottili segni bianchi intersecati e sospesi.

D. Tecnicamente come inizi un’opera, hai un metodo preciso?

R. Spremo direttamente dai tubetti i colori, scegliendo le varie zone della tela, dopodiché stendo il materiale con le spugne ottenendo fino a sette, otto venature di colori. Umidificando e asciugando le spugne, in alcune parti del dipinto faccio rinvenire i colori sottostanti. Tutto avviene nel difficile, a volte estenuante, equilibrio complementare tra velocità dell’esecuzione e controllo dei pesi e contrappesi cromatici sino a che il dipinto regge ogni ragione per cui è stato iniziato, lavorato e terminato.

D. C’è un movimento o un artista in particolare che ami o hai amato di più?

R. Amo e ho amato molto Caravaggio. Ho riscoperto Giorgione, grandissimo veneziano, a cui in parte Caravaggio si è ispirato. Per quanto riguarda il contemporaneo, dal ‘900 ad oggi, la mia curiosità onnivora non mi esclude nulla, ma la mia selezione chimica distilla pochissimi nomi: penso alla poesia dell’arte povera di Calzolari, alla meravigliosa pittura struggente e affaticata di Depisis, all’espressionismo mondano e ironico di Mino Maccari, alla trasfigurazione surrealista di Luigi Ontani (per me il più grande pittore, disegnatore e ceramista italiano di oggi) ed infine all'opera del tedesco Gerhard Richter, erede di una visione della pittura rinascimentale che egli è stato capace di destrutturare, mantenendone intatta la monumentalità espressiva, cromatica e drammaturgica, diventandone il più grande interprete moderno. E’ uno dei rari casi in cui si può parlare di pittura contemporanea in cui la bellezza e il magistero sono evidenti e incontrovertibili.

D. L’immaginazione, la realtà, il mito: c’è una poetica precisa nella tua opera?

R. Sì, il viaggio interiore.

D. La tua idea di te, come pittore, come artista: pensi di aderire in qualche modo a un qualche movimento o corrente pittorica o puoi affermare di sentirti libero da legami accademici?

R. Come sempre le denominazioni finiscono per essere etichette che circoscrivono linguaggi che spesso si intersecano, sconfinano, si contraddicono. La pittura è un’arte fluida e credo che lo sia anche il suo pensiero. Diciamo che mi capita di ripercorrere in parte strade già tracciate, ma lo faccio con tutta la buonafede del mio personale cammino.

D. Rispondi semplicemente a un tuo bisogno espressivo interiore o avverti anche la spinta di motivazioni esterne al tuo io che ti invitano all'impulso di dipingere, o ti rendono impossibile ribellarti ad esso?

R. Gli artisti fanno parte della fauna umana, sicchè tra loro vi sono genii, sregolati, lucidissimi razionalisti e artisti mediocri (magari sopravvalutati perché furbi). Chi si mette seriamente in arte è un cercatore e non di oro. E’ un cercatore di ristoro dalla vita seriale, uno che si fa domande, si pone dubbi, uno che quando guarda un oggetto o un soggetto li ribalta con un pensiero che non esiste nei cosiddetti luoghi comuni. E’ dunque qualcuno che ha bisogni e urgenze più impellenti e dirette di coloro i quali tesaurizzano tutto nelle strategie.

D. Secondo te, l’arte è da considerarsi superflua o elitaria oppure ha ancora una funzione sociale?

R. Dire che l’arte è superflua è come dire che è superfluo che l’uomo esista. L’arte è un linguaggio, dunque non sta solo nella storia, ma è anche il valore poetico e intellettuale dell’antropologia culturale. Questo è forse superfluo? Non so se la storia sociale si faccia cambiare dall’arte o se l’arte abbia una tale forza, ma certo l’arte in alcuni momenti storici aiuta a valutare tutta una serie di elementi non così evidenti nei lunghi istanti che corrispondono ai cambi di paradigma. Nella società odierna, dove le responsabilità sociali, civili, storiche, mi paiono assai vacanti, l’arte è sempre più autoreferenziale. Non si capisce dove sta il mondo e l’arte non fa il mondo.

D. L’artista può essere anche parte del processo di mediazione dell’opera? E della Critica dell'arte, che cosa pensi?

R. La prima domanda pone in essere problematiche assai delicate. Ritengo auspicabile che, sino a quando sia possibile, l’autore debba avere voce in capitolo sul valore intellettuale della sua opera, come ragionevole tutela di un manufatto che è emanazione esistenziale dell’artista stesso. Per quanto riguarda la Critica ho lo stesso pensiero che ho nei riguardi dell’intelligenza e della stupidità. Esistono; la qual cosa è una realtà ineludibile con cui fare i conti.

D. Che rapporto hai con i tuoi quadri?

R. Il rapporto che ho con i miei quadri terminati è inesplicabile. Li sottopongo ad un continuo esame che può durare anche per mesi e mesi; li avvicino tra loro per scoprire eventuali relazioni come risultanti del mio inconscio e delle mie attitudini strutturali relative alla produzione, alla riproduzione, alla ricerca, alla comprensione; apro e socchiudo gli occhi nel guardarli intanto che li metto sotto luci diverse; faccio uno sforzo di pensiero visionario per vederli calati in ambiti diversi, li guardo a dieci centimetri dalla tela o a sei, sette metri di distanza. Alla fine non c’è alcun giudizio definitivo, niente di così chiaro. Li amo tutti; non ne amo nessuno. C’è qualcosa di ancora insufficiente. E’ ora di ricominciare.


D. E’ importante per te il linguaggio pittorico? Credi sia intrinseco all'arte il dono di riuscire a comunicare cose importanti attraverso opere che abbiano qualità che tendono all'universale?

R. Dipende dal periodo storico. Se penso a Giotto, penso al primo pittore moderno. Per me, riferito a lui, “moderno” significa che egli è stato capace di cambiare le regole, il linguaggio e la visione del mondo senza voler per questo cambiare il mondo, di trasmettere la sua idea della realtà su un piano critico più articolato, segnando forse lo stacco tra la percezione della perfezione accademica e la riproduzione di ciò che invece è chiaro ad ogni uomo. E’ ciò che fa Giotto dopo 950 anni di arte greco-bizantina, quando le figure sacre erano fisse, ieratiche, seriali, dogmatiche; egli è capace di introdurre sfondi architettonici come scenografie teatrali, di muovere le masse degli “attori” all'interno di quelle scenografie e, perciò, di mostrare gli uomini con le loro storie con il notevole proposito di comunicare con il popolo in una lingua comprensibile, un vero e proprio volgare pittorico. E’ un cambiamento epocale e da allora la pittura ha preso a condividere le sue domande sull’uomo e la sua storia, spesso in modo assolutamente coinvolgente attraverso una forte spinta all'immedesimazione del pubblico.
Oggi abbiamo a che fare – anche – con altri mezzi di comunicazione e penso che ci siano in ballo giochi mercantili che distraggono l’arte e l'approccio ad essa. Ma, se è vero che la sensazione di una qualche forma di assenza di categorie moderne sublima tutta la preziosità dell'arte, riesco, nonostante ma anche grazie alla sensazione della presenza assurda di un qualche vuoto, a provare una sorta di nostalgia diacronica di un'arte che corrisponda completamente ai nostri tempi.


Dice di sè E.P. Gavazzoni:

"La mia ricerca.

Ragioni di lavoro mi hanno per molto, molto tempo allontanato dall'esercizio costante della pittura.
Ma ho ripreso a studiare Storia dell'Arte, disegno, pittura tre anni e mezzo or sono fino a produrre una serie di lavori frutto di una sorta di allenamento.
La produzione che io considero più matura è di questi ultimi quattordici mesi e corrisponde ad una trentina di pezzi tra i quali una quindicina, a mio avviso, più interessanti rispetto agli altri.

E' la ricerca interiore che mi preme nella declinazione della mia visione spirituale dell'uomo, anche religiosa, non tanto nel senso dottrinale dei termini e delle applicazioni comportamentali ma soprattutto in quanto all'attenzione a valori più profondi come, per esempio, l'esplorazione della dimensione onirica e di quella del mistero dell'origine e delle risultanze della poesia.

L'impianto estetico dei miei dipinti trae spinta dall'amore giovanile ma tutt'altro che sopito per la pittura più tenebrosa del Tintoretto e per quella delle ombre e delle improvvise luci del Caravaggio.

La mia è una ricerca, se si vuole, anacronistica; una sorta di anamnesi, quasi al riconoscimento delle ragioni, da me non condivise, di quei molti luoghi deputati nei quali si celebra la sparizione della pittura."

E' un'intervista a cura di DASTRA e Hugo Beaumont / Pierangelo Cardia.

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